GIROLAMO Miani (Emiliani), santo. – Nacque nel 1486 a Venezia, presso S. Vitale, da una famiglia patrizia di condizioni economiche non particolarmente floride che esercitava la mercatura della lana.
I Miani erano originari dell’entroterra veneziano e del Friuli, da dove si mossero in più ondate prima dell’anno 1000. La presenza a Venezia del ramo dei Miani cui appartiene G. è attestata, pur con diverse variazioni del cognome (da Mezani a Megiani, e poi Migliani, Meliani, e infine Miani), anteriormente al 1274.
La variante “Emiliani” è dovuta a un improbabile collegamento, proposto da molti biografi di G. nell’intento di nobilitarne le origini, con una più antica gens romana, quella degli Emilii. In realtà G. e i suoi familiari usarono sempre il cognome Miani.
Si è ritenuto che l’anno di nascita di G. fosse il 1481, ma nel 1917, sulla base dei registri della Balla d’oro, G. Dalla Santa stabilì che era nato nel 1486. G. fu il più giovane dei quattro figli che Angelo Miani di Luca ebbe dal suo secondo matrimonio (1472), con Eleonora, figlia di Carlo Morosini. Luca, il primogenito, era nato nel 1475, Carlo nel 1477 e Marco nel 1481. Dal primo matrimonio di Angelo con una figlia di Eustachio Tron (1469) era nata (1471) Cristina, morta nel 1511. Il padre di G., senatore della Repubblica, nel 1483 aveva partecipato come capitano delle galee della Marca alla presa di Comacchio. Nel 1486 era stato podestà e capitano a Feltre e provveditore a Zante; nel 1492 fu provveditore a Lepanto. La famiglia materna poteva vantare fra i suoi ascendenti tre dogi, numerosi senatori e procuratori di S. Marco.
Non si hanno notizie precise dell’infanzia e dell’adolescenza di G.; è noto soltanto che a 10 anni, nel 1496, rimase orfano del padre, impiccatosi a Rialto per motivi rimasti sconosciuti.
Il 1° dic. 1506 G. partecipò, presentato dalla madre, al sorteggio per l’ammissione al Maggior Consiglio.
I membri delle famiglie nobili veneziane acquisivano il diritto di far parte del Maggior Consiglio all’età di venticinque anni. Al compimento del diciottesimo anno potevano però essere presentati al magistrato dell’Avogaria per partecipare al sorteggio detto della barbarela, che si svolgeva il 4 dicembre di ogni anno, festa di S. Barbara, e consentiva a 30 giovani di accedere al supremo consesso prima dell’età prescritta.
Come esponente di una famiglia patrizia e membro del Maggior Consiglio, G. prese parte alla guerra che nel 1509 la Lega di Cambrai mosse contro Venezia. In sostituzione del fratello Luca, all’inizio del 1511 G. si recò, con 300 fanti comandati dal capitano Andrea Rimondi, a Castelnuovo di Quero, sul Piave, porta di accesso da nord alla pianura trevigiana.
La Repubblica mandava nelle sue fortezze un capitano come comandante militare e un nobile come castellano, una sorta di commissario del governo che doveva essere in grado, in caso di necessità, di assumere anche il comando delle operazioni militari.
Luca Miani, dal 15 dicembre comandante del castello della Scala a nord di Bassano, era rimasto ferito al braccio destro il 5 luglio 1510, quando il castello era stato conquistato dalle truppe imperiali. Portato in Germania come prigioniero e poi scambiato con un capitano tedesco prigioniero dei Veneziani, al ritorno in patria chiese che gli fosse concessa vita natural durante la castellania di Castelnuovo, con la facoltà, in quanto invalido per le ferite riportate, di essere sostituito da un familiare. Respinta per due volte, la richiesta fu infine accolta il 23 dic. 1510 per la durata di cinque reggimenti (ciascun reggimento corrispondeva a un periodo di 32 mesi) e un salario di 5 scudi al mese.
Il 12 apr. 1511 G. segnalò al Consiglio dei dieci alcuni episodi di insubordinazione nei suoi confronti, nonché l’esistenza, presso il vicino paese di Scalon, di un passaggio segreto che sfuggiva al controllo dei soldati e dei doganieri della Repubblica. Il Consiglio incaricò il podestà di Treviso di processare gli insubordinati e di mettere sotto controllo il passaggio di Scalon.
Il 27 ag. 1511 la guarnigione di Castelnuovo, rinforzata da truppe inviate dal podestà di Belluno al comando di Paolo Boglioni e Cristoforo Colle e dalle milizie di Lodovico Battaglia detto il Battaglino, subì l’assalto delle truppe di Jacques Chabannes de La Palice, che mandò contro Castelnuovo 3000 fanti appoggiati dall’artiglieria agli ordini del capitano Mercurio Bua.
Abbandonata dal Battaglino e dal Rimondi, che fuggirono prima dello scontro, Castelnuovo si difese strenuamente, ma dopo un giorno di aspri combattimenti, durante i quali quasi tutti i difensori furono uccisi, fu conquistata e G. fu preso prigioniero. Rimase in prigione per un mese, fino al 27 sett. 1511, quando riuscì a scappare e a rifugiarsi, dopo una notte di marcia, a Treviso.
Gli agiografi di G. raccontano che, durante la prigionia, dopo un primo momento di grande disperazione, egli visse un profondo travaglio interiore, che lo indusse a rivolgersi alla Vergine, in particolare all’immagine che si venerava nella chiesa della Madonna Grande di Treviso, facendo voto, se avesse riacquistato la libertà, di recarsi a renderle omaggio in veste di penitente, di riconoscere pubblicamente la grazia ottenuta e di abbandonare lo stile di vita disordinato che aveva condotto fino a quel momento. La Vergine esaudì le sue preghiere, lo liberò dalle catene, aprì la porta della cella e lo fece passare inosservato attraverso le linee nemiche.
Il giorno dopo si recò a Treviso per sciogliere il voto davanti al quadro miracoloso, portando con sé e deponendo sull’altare, a testimonianza del prodigio, gli strumenti della sua detenzione e della sua liberazione (ceppi, manette e palla di marmo, che portava legata al collo con una catena), che si ritrovano nella sua iconografia.
Riacquistata la libertà, prese parte, il mese successivo, alla difesa di Treviso, assediata dalle truppe di Massimiliano I d’Asburgo. Nel 1512 partecipò senza successo al ballottaggio per l’ufficio di provveditore a Romano. Nel 1514, anno della morte della madre, fu in Friuli al fianco del provveditore generale Giovanni Vettore, che era stato inviato a sostegno delle popolazioni fedeli alla Repubblica insorte contro gli Imperiali occupanti.
Quando, dopo la pace di Noyon (13 ag. 1516), Venezia recuperò Castelnuovo, G. ritornò al suo posto di castellano in sostituzione del fratello Luca. Alla morte di questo (21 luglio 1519) assunse la tutela dei nipoti Alvise, Eleonora ed Elena, e ottenne di mantenere la reggenza di Castelnuovo fino alla scadenza dei cinque reggimenti previsti. Rimase titolare della fortezza presumibilmente fino al 21 sett. 1527, quando l’incarico fu assegnato a un tal Giovanni Manolesso.
Nonostante questo incarico e l’impegno nei confronti dei nipoti, G. non tralasciò i suoi doveri di patrizio veneziano. Partecipò alla seduta del Maggior Consiglio del 14 maggio 1523, in cui furono estratti a sorte fra i membri di almeno trenta anni i 30 elettori del doge, e fu sorteggiato. Dal 1526, anno in cui morì il fratello Marco, si prese inoltre cura anche dei tre figli di questo, Angelo, Cristina e Luca Amadio.
Favorita dalla solitudine di Castelnuovo, dall’impegno in favore dei nipoti orfani e dalla guida spirituale di un canonico lateranense, maturò in G. l’esigenza di impegnarsi nelle attività caritativo-assistenziali, che a Venezia ricevevano impulso soprattutto dall’opera del vicentino Gaetano Thiene. Questi si era impegnato (1520) nella riorganizzazione dell’ospedale Novo, nel 1521 aveva fondato la Compagnia del Divino Amore e nel 1522 aveva promosso, insieme con un gruppo di gentiluomini veneziani, la fondazione dell’ospedale degli Incurabili.
- iniziò la sua opera caritativa praticando proprio in quell’ospedale, dove dal 1527, dopo la fine dell’incarico a Castelnuovo, il suo impegno si fece più costante. In quell’anno di grave carestia G. fu tra i promotori della costruzione di un ricovero in legno per poveri e bisognosi, su un terreno (detto del Bersaglio per l’uso militare cui era adibito) vicino alla chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo. L’anno successivo, aggravandosi la carestia e continuando ad arrivare a Venezia dai dintorni un numero sempre più grande di poveri e vagabondi, si decise di allargare il ricovero con un edificio in pietra (il futuro ospedale del Bersaglio, o dei Derelitti, o dei Ss. Giovanni e Paolo), in cui furono ospitati poveri, infermi, orfani abbandonati, vedove indigenti.
- dovette distinguersi in modo particolare in quest’opera caritativa, se il 2 apr. 1528 era, insieme con Girolamo Cavalli, soprastante dell’ospedale del Bersaglio, in cui prestava la sua opera di assistente spirituale il sacerdote vicentino Pellegrino Asti, futuro seguace di Girolamo.
L’impegno filantropico di G. si intensificò nel 1528 con l’aggravarsi della carestia e l’aumento del numero dei poveri. Oltre all’opera prestata agli Incurabili e al Bersaglio, cominciò a dispensare in loro favore le proprie sostanze e a ospitarli in casa a sue spese, incorrendo nella disapprovazione dei parenti, soprattutto in quella della vedova del fratello Luca. Soccorreva inoltre gli infermi e si occupava della sepoltura dei morti abbandonati.
La sua attenzione era rivolta soprattutto agli orfani: li nutriva, li lavava, li vestiva, insegnava loro i primi elementi della pietà cristiana, forniva loro i rudimenti iniziali dell’arte della lana. Ma la sua casa non bastava più a contenerli tutti, così in quell’anno prese in affitto una piccola bottega a S. Basilio e ve li trasferì.
Verso la metà del 1529 una pestilenza, che sarebbe durata fin quasi alla fine dell’anno, si aggiunse alla carestia già in atto, aggravando ancor più la situazione. G., che non si risparmiò neanche in questa emergenza, contrasse il morbo ma riuscì a guarire.
In lui era ormai maturo il proposito di cambiare vita e di dedicarsi completamente ai suoi orfani. Il 6 febbr. 1531 rinunziò, con atto del notaio Alvise Zorzi, a tutti i suoi beni residui in favore dei nipoti e, vestito di poveri panni, si trasferì a S. Basilio. Poco tempo dopo, aumentando il numero degli orfani, prese in affitto nuovi locali a S. Rocco e vi aprì una seconda casa.
Di formazione militare e dotato di senso pratico più che di profonda dottrina, portato all’azione più che alla speculazione, G. trasfuse nell’azione caritativa la sua concretezza e le sue qualità organizzative. Non lasciò nulla di scritto, a eccezione di sei lettere inviate ai confratelli da Venezia e da Somasca tra il 5 luglio 1535 e l’11 genn. 1537 (v. l’edizione curata da C. Pellegrini, Le lettere di s. G. M., Rapallo 1975). La sua opera non si basava su complesse elaborazioni teoriche ma su alcune fondamentali intuizioni, come quella di collegare l’educazione degli orfani alla preghiera, all’istruzione e al lavoro manuale.
Non voleva assolutamente che gli orfani elemosinassero; era lui stesso che, in caso di necessità, si umiliava a farlo. Assumeva e stipendiava artigiani per insegnare ai ragazzi un mestiere e si adoperava per inserire i suoi protetti nel mondo del lavoro. Nel 1531 l’ospedale del Bersaglio affidò a un artigiano fabbricante di brocche di ferro 13 orfani, i quali, dopo 15 giorni di apprendistato non retribuito, avrebbero cominciato a percepire un regolare salario.
In quegli anni il punto di riferimento di G. fu la comunità dei teatini che, scampata al sacco di Roma (maggio 1527), aveva trovato rifugio a Venezia, dove, sotto la guida di Gaetano Thiene e di Gian Pietro Carafa (il futuro Paolo IV), si riuniva nella chiesa e nei locali della Confraternita di S. Niccolò da Tolentino. G. si avvalse in particolare dei consigli del Carafa sia sul piano spirituale, sia su quello dell’azione caritativa. Thiene e Carafa individuarono in G. la persona più adatta a occuparsi della gestione dell’ospedale degli Incurabili, dove la disciplina e il buon ordine erano decaduti. Su loro esortazione, nell’aprile 1531, G. accettò di trasferirvisi con i suoi orfani, dopo aver chiuso le case di S. Basilio e di S. Rocco. E ancora su loro sollecitazione, in seguito a una richiesta del veneziano Pietro Lippomano vescovo di Bergamo, accettò, nel marzo 1532, di partire da Venezia per diffondere anche in altre città la sua opera caritativa.
La prima tappa del suo viaggio fu Verona, dove il vescovo Matteo Giberti, che aveva aperto un ricovero per orfani presso l’ospedale della Misericordia, avendo ammirato l’attività di G. agli Incurabili e al Bersaglio, ne richiedeva la presenza per dare alla sua istituzione un’impronta analoga.
L’8 maggio, dopo un mese di permanenza a Verona, G. arrivò a Brescia e, trovata ospitalità nell’ospedale degli Incurabili diretto da Bartolomeo Stella, con l’aiuto di alcuni benefattori raccolse nello stesso ospedale gli orfani della città.
Dopo la metà di giugno partì per Bergamo, dove fondò due istituti per orfani, uno maschile (detto inizialmente di S. Leonardo dal nome del sobborgo in cui si trovavano i locali dell’ospedale di S. Maria Maddalena che lo ospitarono, poi di S. Martino, dopo il trasferimento della sede nei pressi della chiesa omonima) e uno femminile in una casa della contrada S. Giovanni. Si impegnò inoltre a diffondere il catechismo nelle campagne circostanti: di giorno, con alcuni orfani adeguatamente istruiti, si recava presso i contadini e li aiutava nel loro duro lavoro, la sera li riuniva per far loro ascoltare dalla bocca dei fanciulli l’insegnamento religioso.
Fra il 1532 e il 1533 si recò dapprima a Brescia, per provvedere al trasferimento degli orfani degli Incurabili in una casa presso S. Giovanni Battista, poi a Verona, dove separò gli orfani dalle orfanelle, trasferendo le fanciulle nell’ospizio annesso al monastero della Ss. Trinità già abitato dalle convertite.
Tornato a Bergamo, fondò nella prima metà del 1533, nella contrada Pelabrocco al borgo S. Antonio, una casa per le peccatrici convertite. In questa città, il cui vescovo Lippomano gli aveva già affiancato come coadiutore il nobiluomo Domenico Tasso, cominciarono a raccogliersi attorno a G. alcune persone disposte a condividerne l’impegno in favore degli orfani. I primi furono due sacerdoti, Agostino Barili e Alessandro Besozzi, ai quali ben presto si aggiunsero, tra gli altri, Gianfrancesco Albani, Simone Barili, Giovanni Cattani, Mario Lanzi, Antonio Locatelli, Gian Maria Rota, Girolamo Sabbatini e Ludovico Viscardi.
Nell’autunno 1533, dopo aver chiesto l’autorizzazione al vescovo Lippomano e aver affidato al Barili e al Besozzi la cura delle case di Bergamo, G. partì con 35 fanciulli alla volta di Milano. Fu accolto con favore dal duca Francesco II Sforza, che lo invitò a risiedere a corte e si dichiarò disposto a finanziare le sue iniziative. G. rifiutò ogni sovvenzione e preferì prendere alloggio con i suoi orfani nelle soffitte della chiesa del S. Sepolcro, trasferendosi poi nell’ospedale abbandonato di S. Martino, dove fondò una casa per orfani (gli attuali “martinitt”). In questa città fondò inoltre una casa per fanciulle orfane (a S. Spirito), e una per peccatrici convertite. Francesco II fu a tal punto soddisfatto dell’attività di G. da scrivere nel gennaio 1534 al suo rappresentante a Venezia Galeazzo Capella, incaricandolo di ringraziare il Carafa e di sollecitarlo a intervenire presso il vescovo Lippomano affinché fosse permesso a G. di rimanere a Milano. Una lettera del Carafa del 18 genn. 1534 informò Gaetano Thiene, che si trovava a Napoli, dell’apprezzamento del duca per la missione di Girolamo Miani. Intanto, numerosi notabili che avevano collaborato con G., fra i quali il protonotario apostolico Federigo Panigarola, Girolamo Calchi, Francesco Croce, Giovanni Battista Lattuada, Ambrogio Schieppato, Marco Strada e Francesco Visconti della Guascona, si riunirono costituendo la Compagnia degli orfani di S. Martino.
L’opera di G. si era ormai estesa in tutta la Lombardia, numerose persone si erano aggregate a lui e collaboravano alla gestione degli istituti da lui fondati. Egli avvertì l’esigenza di dirigere e coordinare il loro lavoro e di fissare le basi della loro vita in comune. Nel giugno del 1534, a Merone in Brianza, nella casa del futuro confratello Leone Carpani, G. e i suoi compagni tennero una riunione in cui decisero di promuovere la costituzione di una compagnia e scelsero come sede Somasca, un paesino isolato e tranquillo vicino a Vercurago, nella valle di San Martino, sul confine tra la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano. All’inizio dell’estate del 1534 G. vi si stabilì con un gruppo di orfani e di confratelli prendendo in affitto una casa dalla famiglia dei maggiorenti del luogo, gli Ondei. La nuova aggregazione, detta inizialmente Compagnia dei servi dei poveri, assunse nel 1569 il nome definitivo di Congregazione dei chierici regolari di Somasca.
Molti scrittori che si sono occupati dei somaschi hanno erroneamente anticipato al 1528 la nascita della Congregazione; nel 1928 inoltre, è stato ufficialmente celebrato il quarto centenario della sua fondazione. Il 1528 invece è l’anno in cui matura nella vita di G. una svolta radicale con la decisione di dedicarsi completamente alla cura degli orfani abbandonati e con l’apertura a sue spese della bottega di S. Basilio. In questo inizio della sua attività caritativa non c’è traccia di aggregazione di persone intorno a lui, anzi per alcuni anni egli operò da solo, talvolta in appoggio a istituzioni già esistenti e fu solo dal 1533, a partire dal suo soggiorno bergamasco, che egli cominciò a riunire attorno a sé dei compagni disposti a condividere le sue scelte assistenziali e religiose, ai quali poter affidare il compito di dirigere, sulla base delle sue disposizioni, le istituzioni da lui fondate.
All’inizio del 1535 G. lasciò Somasca per recarsi a Como su invito di alcuni notabili già impegnati in opere di carità, fra i quali il valente umanista Primo Conti, suo fratello Francesco e Bernardo Odescalchi, che entrarono poi a far parte della Compagnia. A essi G. affidò i due istituti per orfani fondati in questa città, uno per i maschi, nei locali dell’antico ospedale di S. Leonardo nella contrada di Porta Nuova, in seguito (autunno 1536) trasferitosi all’ospedale S. Gottardo, e uno per le femmine presso l’ospizio della Maddalena.
Nei primi mesi del 1535 G. si rimise in viaggio da solo per Venezia, facendo tappa a Bergamo, Brescia e Verona per accertarsi del buon andamento delle case da lui fondate. A Venezia prese alloggio al Bersaglio e non presso i parenti, probabilmente perché la sua venuta era stata richiesta dai responsabili di quell’ospedale per porre rimedio a qualche disfunzione organizzativa.
I rapporti con i familiari erano in ogni caso definitivamente deteriorati se egli non volle incontrare nessuno di loro e se, al momento della partenza da Venezia, incaricò il padre Pellegrino Asti di portare loro i suoi saluti, come si apprende da una lettera del 29 luglio 1535 del nipote Angelo, figlio di Marco, alla nobildonna vicentina Bianca Trissino. Durante questa permanenza a Venezia scrisse due delle sei lettere che ci rimangono, la prima il 5 luglio ad Agostino Barili a Brescia, in cui esprime la sua sofferenza per le difficoltà incontrate dai confratelli e la certezza che il loro operare è conforme alla volontà di Dio, la seconda il 21 luglio a tutta la Compagnia, in cui incoraggia ed esorta i confratelli a essere forti e a perseverare nell’opera intrapresa.
Prima della fine di luglio ripartì da Venezia e, attraverso Vicenza, Verona, Salò (dove fu ospite dei fratelli Scaini), Brescia e Bergamo, giunse ai primi di settembre a Somasca, dove ricevette il primo riconoscimento ufficiale da parte dell’autorità ecclesiastica: il vescovo Girolamo Aleandro, legato pontificio presso la Repubblica di Venezia, con una lettera del 21 settembre concedeva alla Compagnia la facoltà di scegliere un sacerdote per la cura spirituale dei confratelli.
Il 20 dic. 1535 visitò le case di Milano, quindi, verso la fine del mese, passò con un gruppo di orfani a Pavia, dove fu ospitato nell’ospedale di S. Rocco gestito dalla Confraternita della Misericordia. In seguito, dopo un periodo trascorso all’aperto in un luogo della cittadella, detto I Saloni, che serviva per le esercitazioni militari, trovò alloggio nell’ex convento attiguo alla basilica dei Ss. Gervasio e Protasio, dove fondò una casa per orfani che nel 1539 si trasferì nei locali del convento detto della Colombina. A Pavia G. accolse fra i suoi compagni Angiolmarco Gambarana (futuro preposito generale della Congregazione), il fratello di questi Vincenzo (cui affidò, ripartendo per Somasca, la direzione dell’istituto da lui fondato), Bernardo Bosco, Giovanbattista Palma, Ottone Parenti, Girolamo Pellizzari e Bernardo Sacco.
Dopo una nuova visita (1° febbr. 1536) alle case di Milano, G. ricevette una lettera, datata 18 febbraio in cui, con toni molto decisi, il Carafa lo invitava a moderare il suo entusiasmo nell’aprire sempre nuove case senza curarsi della loro stabilità, lo esortava a essere più umile e lo metteva in guardia dalla vanità e dall’ostentazione.
Nel maggio del 1536 fu di nuovo a Brescia, dove si occupò della sistemazione presso l’ospedale della Misericordia di un gruppo di 70 orfani che il predicatore cappuccino Giovanni da Fano aveva raccolto e ricoverato nell’ospedale degli Incurabili durante la quaresima. A Brescia, il 4 giugno, con la partecipazione di 19 confratelli, si tenne il capitolo della Congregazione che si occupò delle regole per la vita in comune, delle condizioni per il reclutamento dei nuovi adepti, della formazione dei giovani e della disciplina del capitolo.
Tornato a Somasca, G. si recò nel settembre successivo a Verona, ospite del vescovo Giberti, per salutare il Carafa che partiva per Roma (27 settembre) insieme con lo stesso Giberti e con l’inglese Reginald Pole per partecipare, su richiesta di Paolo III, alla stesura del Consilium de emendanda Ecclesia. Nel dicembre successivo fu a Bergamo, dove fece visita al vicario della diocesi Giovanni Battista Guillermi.
Fra la fine di dicembre 1536 e l’inizio di gennaio 1537 fu raggiunto a Somasca da una lettera del Carafa, nominato cardinale da Paolo III, che lo invitava a Roma per trapiantare colà la sua esperienza e la sua opera in favore degli orfani. Ma proprio all’inizio del 1537 una nuova pestilenza scoppiò nella valle di San Martino e colpì anche numerosi orfani e confratelli. Ancora una volta G. profuse generosamente il suo impegno in favore degli ammalati e il 4 febbraio contrasse lui stesso il morbo.
- morì a Somasca all’alba dell’8 febbr. 1537 e fu sepolto nella locale chiesa di S. Bartolomeo.
Beatificato da Benedetto XIV il 22 sett. 1747 e canonizzato da Clemente XIII con bolla del 16 luglio 1767, il 14 marzo 1928 è stato proclamato da Pio XI “Patrono universale degli orfani e della gioventù abbandonata”. La sua festa viene celebrata il 20 luglio.
Una statua a lui dedicata, opera dello scultore Pietro Bracci, è stata collocata nel 1757 in S. Pietro accanto a quelle degli altri santi fondatori di ordini religiosi